Al teatro Eliseo fino al 26 marzo è in scena L’ora di Ricevimento con Fabrizio Bentivoglio, per la regia di Michele Placido. A firmare lo spettacolo, uno dei più importanti esponenti della drammaturgia contemporanea italiana: Stefano Massini. La sua scrittura precisa e scavante e il suo sguardo scrutatore li abbiamo già apprezzati in Donna non rieducabile, ma soprattutto nel grande, ultimo spettacolo del regista Luca Ronconi: Lehman Trilogy.
L’ora di Ricevimento non guarda al passato, come i testi sopracitati, ma a una realtà che da qualche anno in Francia è quotidianità (il termine “banlieu” indica proprio l’area periferica dei grandi agglomerati urbani francesi). Il professore di lettere Ardèche resiste da decenni in una scuola della difficile periferia les Isards, dove culture, religioni e colori si mischiano e spesso diventano ingredienti capaci di innescare scontri violenti. Non a caso, sullo sfondo, una sirena di ambulanza o di polizia riecheggia di tanto in tanto. Ogni nuovo anno scolastico porta con sé buoni propositi e voglia di cambiamento. Ma il professor Ardèche vive questo periodo dell’anno con serena rassegnazione, consapevole che non ci saranno cambiamenti, a partire dalla sua classe. L’esperienza gli ha insegnato che il posto di banco dice molto dell’alunno. Ecco che allora i ragazzi multietnici non si riconoscono più dai nomi, ma dal soprannome che l’insegnante ha affibbiato loro. Il suo lavoro non finisce in classe, ma prosegue nell’ora di ricevimento. Ogni giovedì dalle 11 alle 12, riceve i genitori dei suoi alunni: è questa la parte più difficile. Spesso sono proprio le famiglie che non vogliono integrarsi e che vedono nel diverso – ebreo, mussulmano, occidentale- un pericolo per la crescita del proprio bambino. Usano la propria lingua madre per alzare barriere e sono poco propensi al dialogo. Il più delle volte si tratta di meccanismi di difesa, di ignoranza.
Lo spettacolo è diviso in due atti e la scarna scenografia di Marco Rossi immortala la fatiscente classe di una scuola pubblica. Dal grande finestrone lo spettatore osserva il passare delle stagioni, una cattedra, una lavagna, qualche sedia cigolante e due file di lampade al neon sul soffitto completano l’arredo.
Fabrizio Bentivoglio si è confermato un grande interprete. Soprattutto nel bel monologo iniziale, ha catturato il pubblico, mischiando ironia, malinconia e inquietudine. Queste sfumature le mantiene e le approfondisce nel corso dello spettacolo, ma spesso non fanno altro che acuire la differenza, di esperienza e bravura, con gli altri interpreti, che risultano molto deboli.
La regia è statica anche nelle scene corali. Gli attori spesso si “impallano”, ovvero di sovrappongono, non permettendo così una buona visione allo spettatore in platea.
Le due ore e dieci di spettacolo previsto, tuttavia, non coincidono con il tempo percepito. Soprattutto nella seconda parte, i meccanismi risultano già visti, il ritmo diventa pedante e la scrittura perde la leggerezza iniziale. Anche il dialogo finale con l’ex scolaro, ormai adulto, seppur ben scritto, non suscita la drammaticità, sottolineata solo dalle luci di Simone De Angelis.
Il tema è molto attuale e anche uno spettatore italiano può capire bene la situazione di difficoltà che alcune scuole stanno vivendo anche in Italia. L’immigrazione, l’integrazione e quindi la convivenza tra popoli con storie molto diverse l’una dall’altra non fa parte solo del presente, ma probabilmente farà parte anche del nostro futuro. La scuola è il luogo per eccellenza in cui giovani uomini e giovani donne si incontrano, si scambiano idee. Oltre a fornire l’istruzione, la scuola forma dei cittadini. Il professore, soprattutto quello di Lettere non ricopre solo un ruolo formativo, ma diventa un punto di riferimento, estraneo alle logiche delle famiglie, qualunque esse siano.
Domenico Starnone è stato l’apripista, se così si può dire, del filone scolastico a teatro, con il fortunato spettacolo Sottobanco e poi la Scuola con Silvio Orlando.
L’ora di Ricevimento si staglia su questo filone, importante, necessario, anche quando, proprio come il Professor Ardèche, si è costretti a riconoscere, infine, la propria sconfitta non solo professionale, ma soprattutto umana.